La stazione di Sahagún
La stazione di Sahagún

Oggi si aspetta, non si cammina. Era nei piani. Adesso è rimasta l’ultima tratta in treno, in totale 15 ore per arrivare a Sahagún.

Ma mentre la macchina andava verso León, ha cominciato a profilarsi un paesaggio noto: campi di grano reciso e bruciato dal sole alternato da campi di girasoli, distesi su altipiani che all’improvviso arrivano a una discesa che ti apre la visuale: chilometri a perdita d’occhio di altro oro macchiato dal verde puntinato di giallo e nero. Sono in macchina, ma riconosco quel caldo: le mesetas.

Allora mi sono reso conto che sono già in cammino, anche se mi appisolo in macchina!

Sono in cammino perché mi sono entusiasmato alla vista dei girasoli e alle cicogne sul traliccio. Perché voglio stare bene con la persona che ho di fianco anche se non la conosco e non la rivedrò più. Purtroppo non è scontato. E perché i ricordi di due anni fa sono tutti lì, in mezzo ai girasoli.

Si crea un’aspettativa subdola e pericolosa, mista alla consapevolezza e alla paura di essere stanco. Lo so che non è il cammino che risolverà qualcosa, solo la persona che lo fa. Il mio spirito è altalenante, passando dall’entusiasmo di essere qui ai colpi di sonno al pensiero bulimico.

Ma dopo tutto cerco il vuoto e anche questo scrivere è in contraddizione con il fatto che l’uomo nobile non ha nulla da fare.